L’Arte nel rifugio antiaereo a Villa Revedìn. Sculture, fotografie e video

La Repubblica

Dal 05 luglio al 6 settembre, all’interno delle gallerie del rifugio antiaereo 1942 “Vittorio Putti”, recuperato dall’Associazione Amici delle vie d’acqua e dei sotterranei di Bologna, si terrà la mostra d’Arte “Passaggi”. Il gruppo di Bologna sotterranea è lieto, assieme alla Direzione del Seminario Arcivescovile, di mettere a disposizione questi luoghi non solo per le visite guidate.

L’inaugurazione questa sera a partire dalle ore 17.00.

 

Descrizione:

“Passaggi” è organizzata dall’Associazione “Il Campone” (Paolo Quartapelle ed Elisabetta Graceffa) presso il rifugio antiaereo “Vittorio Putti” di Villa Revedìn, Seminario Arcivescovile di Bologna, con la collaborazione dell’Associazione Amici delle vie d’acqua/Bologna Sotterranea, alla quale si deve il recupero del rifugio, e di Dryphoto arte contemporanea di Prato. L’utilizzo del rifugio è stato concesso dal Seminario Arcivescovile di Bologna.

Progetto grafico Caterina Tandello / Ufficio stampa Rino Orsatti.

“Passaggi” Ispirata al tema della memoria e del mutamento, intende mettere a confronto e far dialogare fra loro la straordinaria forza dell’architettura del rifugio “Vittorio Putti”, con la scultura, la fotografia e l’immagine video.

Il rifugio “Vittorio Putti”, posto accanto al seminario Arcivescovile di Bologna, nei pressi dell’Ospedale Rizzoli e del complesso di San Michele in Bosco, è singolarmente ed intrinsecamente incoerente in quanto luogo sotterraneo posto sulla collina più alta di Bologna. Il rifugio è formato da due lunghe gallerie che si snodano dopo un breve tunnel che si avvia dall’ingresso principale. In questo punto di incontro e di separazione, a sottolineare il rapporto fra le diverse forme espressive della scultura e della fotografia in interazione col luogo fisico ove sono collocate, troviamo due opere di grande formato di Andrea Abati e di Guy Lydster. Nel tunnel che si snoda a sinistra, lungo le pareti si trovano le fotografie di Andrea Abati della serie “I luoghi del mutamento”, ispirate alla demolizione di fabbricati industriali, e della serie “La forza della natura”, delicato lavoro sulla vegetazione dei luoghi colpiti dal terremoto. Lungo questo tunnel, si aprono due ambienti, un’infermeria ed una sala operatoria, che tradiscono la storia del luogo, e dove si trovano rispettivamente tre piccole opere dei tre autori e altre foto di un recente lavoro dell’Abati sulla demolizione di un ospedale. In fondo al tunnel, nel luogo più recondito e profondo del rifugio, viene proiettato il video di Paolo Quartapelle, che intende così segnare con un suo contributo site specific, intimo e personale, la mostra ideata insieme all’amica e curatrice Elisabetta Graceffa (“Il Campone”). Nel ripercorrere a ritroso la memoria e il tunnel si torna all’indotto che conduce al secondo tunnel. Lì sono collocati i disegni di grande dimensione sul tema dell’acqua dello scultore Guy Lydster, che ci accompagneranno verso due ambienti di straordinaria bellezza posti in fondo al tunnel, prima dell’uscita. A sinistra, la cava di arenaria risalente almeno al 1700, ove sono collocate direttamente sulla terra, un gruppo di opere scultoree di Guy Lydster in creta raku bianca. A destra, un grottesco settecentesco, ove le pareti e la volta sono costellati di blocchi sporgenti di arenaria. In questo suggestivo ambiente sono collocate due importanti sculture di Guy Lydster, “Il Fiume”, in pietra serena, e un “Headscape” mai precedentemente esposta, in creta marrone.

Guy Lydster, (www.guylydster.com) scultore neozelandese stabilitosi a Bologna negli anni ‘80, noto per le sue “headscape”, termine che deriva dalla fusione di due parole inglesi: head e landscape.
La creazione di questo termine riguarda, a scopo espressivo, il rapporto tra testa e terra, tra la  mente e il paesaggio che la circonda, indicando  un’interpretazione scultorea sia della testa  umana che del mondo naturale. Attualmente due opere di grandi dimensioni dello scultore si trovano esposte in spazi pubblici a Bologna, in via IV Novembre ed in via Filippo Re, presso l’Università di Bologna.

Andrea Abati, (www.andreaabati.it) fotografo, utilizza la fotografia come strumento di conoscenza e di relazione tra il sé e il mondo, con il fine di innescare pratiche artistiche nella sfera pubblica. Fondatore dello spazio no profit Dryphoto arte contemporanea di Prato. Dagli anni Ottanta partecipa attivamente al dibattito culturale con mostre, seminari ed incontri con importanti fotografi italiani ed europei, con l’obiettivo di far conoscere la fotografia italiana di paesaggio. Sue opere sono in collezioni private e pubbliche tra cui ricordiamo: MAXXI di Roma, Galleria Civica di Modena, Centro Pecci di Prato, MuFoCo di Milano, Fondazione Sandretto di Torino, Fondazione Modena per la Fotografia.

Paolo Quartapelle, ideatore di “Passaggi” per l’associazione “Il Campone”, ha analizzato attraverso l’immagine fotografica il tema del paesaggio e dei non-luoghi. Ha al suo attivo alcune collettive, l’ultima delle quali presso “Duepuntilab” di Bologna (“Kinship”) con la presentazione di una video installazione. Ha partecipato con un suo lavoro personale al progetto “The self portrait experience” della fotografa Cristina Nunez. Ha organizzato per Babajaga la mostra antologica “Il Delta dell’occhio” di Guy Lydster presso le Scuderie di Palazzo Acquaviva di Atri (TE).

L’associazione “Il Campone” di Bologna, ha come soci fondatori Paolo Quartapelle e Elisabetta Graceffa. Il nome trae la sua ispirazione da un luogo fisico, un’area verde molto estesa all’interno dello spazio urbanizzato bolognese. L’associazione si propone di organizzare eventi d’arte unici in luoghi evocativi e dal forte impatto emotivo.

Il rifugio “Vittorio Putti” (notizie a cura de “Amici delle vie d’acqua/Bologna sotterranea):

La vasta area compresa nei terreni situati a Sud, tra porta Castiglione e l’area del Meloncello fuori porta Saragozza, ed i rilievi degli enormi parchi delle ville private che ivi sorgevano, furono utilizzati per costruire durante la seconda guerra mondiale rifugi in galleria. Fra queste, villa Revedìn (nome dell’ultimo proprietario civile) di fattura settecentesca, che sorge accanto al Seminario Arcivescovile di Bologna. Il rifugio era annesso all’Ospedale Militare, Centro ortopedico e Mutilati “Vittorio Putti” istituito nel 1941 all’interno dell’edificio del Seminario Arcivescovile con l’intento di fornire cure ai primi feriti dell’esercito italiano reduci dal Fronte. Pur non avendo rinvenuto notizie precise, le opere di costruzione del rifugio sembrano essere state effettuate negli anni 1941 e 1942, pur con successive modifiche nel corso della guerra. Inoltre, durante l’avanzamento dei lavori vennero inglobate strutture precedenti, molto più antiche, quali una cava di arenaria ed una costruzione in volta, sempre in arenaria, utilizzata come luogo votivo (vi era posizionata una grande statua della Madonna) sin dai tempi del conte Revedìn. Al termine del secondo conflitto mondiale tutti i rifugi in galleria vennero abbandonati o adattati ad altre funzioni. Stessa sorte toccò al rifugio “Vittorio Putti”, trasformato in magazzino/discarica di materiale edile. Le condizioni in cui versava il rifugio quando nel 2013 l’Associazione amici delle acque e di Bologna sotterranea ne iniziò il recupero, erano disastrose. Al suo interno si scorgeva una grande quantità di materiale accatastato. Non vi era illuminazione elettrica e addirittura il ricetto era stato diviso in due sezioni da un muro posticcio. I muri erano diventati, nel tempo, di colore nerastro causa la scarsa ventilazione. Quello che era il luogo di frescura della famiglia Revedìn con l’attigua grotta naturale era divenuto discarica per una accozzaglia di tubi di plastica, ponteggi e vasche da bagno. Le due sale adibite ad infermeria e sala operatoria di emergenza ricettacoli di legname, marmo, pietre, ghiaia, sassi. All’esterno invece, la vegetazione copriva quasi completamente entrambi gli accessi, nascondendo le murature e le parti in arenaria. Dopo un intenso e faticoso lavoro di recupero da parte dell’Associazione Amici delle vie d’acqua/Bologna sotterranea, durato tre anni ed ancora in corso, il rifugio è tornato al suo stato iniziale e si presenta in tutta la sua suggestiva attuale condizione.

Testo critico di Milena Naldi:

Passaggi, cambiamenti, trasformazioni e memoria. Non è affatto banale affrontare questi tema da parte di due artisti adulti, maturi, impegnati, come lo scultore Guy Lydster e il fotografo Andrea Abati. E vederli a confronto in un luogo di passaggio, inedito, fortemente evocativo, come questo rifugio antiaereo creato tra il 1941 e 1942, che accolse oltre 600 persone tra feriti di guerra e residenti della zona, è cosa magica. In questi tunnel di mattoni che penetrano dentro la collina, definiti “antibomba” per via della loro straordinaria struttura costruttiva, si è consumato un pezzo di storia tra i più tragici del nostro recente passato, sofferenze, paure, dolori, ma anche cure e soccorsi, salvezza. Ora nell’oasi di verde sopra San Michele in Bosco, nel silenzio del giardino di Villa Revedin e dell’imponente Seminario Arcivescovile, si può penetrare tra questi passaggi e trovare oltre la memoria di un luogo, la ricerca della memoria e delle trasformazioni della materia e delle cose in due artisti della nostra complicata, e talora indecifrabile contemporaneità. È d’uso per entrambi (e non è certo un caso per chi ha ideato questa mostra Paolo Quartapelle e Elisabetta Graceffa de “Il Campone”) la ricerca di luoghi che abbiano significato, sia per posizionare in dialogo le sculture di Guy, sia per fermare lo sguardo giudicante delle fotografie di Andrea. Le sculture di Guy si mettono in relazione con questo luogo passando dalla terra ai colori del mattone; e dalla terra le sculture di Guy trovano la forza di riconnettersi con una memoria antica e arcaica. Il dialogo perenne che le sculture di Guy ci impongono ci manifesta, più che la voglia di abbandonare una forma antica, quella di muoversi continuamente dentro al suo interno. Le opere di Guy stanno sempre per muoversi, per comunicarci qualcosa, per raccontare ciò che sta imprigionato nella pietra, ciò che nella materia è racchiuso. Come avrebbe detto Michelangelo: la figura è già lì dentro, bisogna solo portarla fuori. Ma quelle “headscape”, intreccio di testa (head) e di paesaggio (landscape), non hanno voglia di schiudersi ad una forma più chiara, più comunicativa. Ciò sarebbe banale; invece trovano un ideale messaggio di pensiero, di racconto, nell’accenno di una fusione perfetta della forma umana portata a sintesi, e così semplificata. In Guy c’è una perenne ricerca di relazione; la sua testa avrà battuto e sfiorato mille volte contro i suoi volumi per entrare a capire le cose, e trovarvi un senso. Credo che il passaggio tra la sua materia e la memoria, come ama dire spesso “cerco la memoria, la memoria è la cosa più importante, la memoria è un corpo autonomo che ha la sua volontà”, stia nel movimento continuo e nella mancanza di confini. La superfice nelle sue crete lascia intravedere i segni, i solchi di strade, di flussi di pensieri, di vie da percorrere e di arcaico o primitivo c’è il ricercare il senso del mondo proprio nel nostro tempo, in cui quel senso sembra essere perduto. Se si guardano poi i suoi schizzi preparatori per le sculture è evidente la spasmodica ricerca della forma nel suo movimento. Anche in questi ultimi disegni, qui per la prima volta esposti, non c’è mai il confine di segni chiusi, protagonista è l’agire dell’acqua, il suo scorrere continuo attorno all’idea di una forma. Le teste si sono trasformate in sassi naturali, che bloccano il fluire dell’acqua sono per un istante per poi lasciarla proseguire. L’acqua fluisce, come la memoria, con una forza più forte e reale di ogni forma e con una sua propria volontà. La ricerca e il dialogo continua nelle fotografie di Andrea la cui ricerca di un senso è permeata da passaggi in luoghi segnati profondamente dall’agire umano. Passaggi che analizzano la nostra epoca, che incontrano spesso il segno orrendo dell’uomo che dopo avere sfruttato, preso, consumato abbandona relitti, oggetti, che fanno male. Luoghi di sofferenza urbana, raccontano inaudite violenze che il nostro sistema lascia con il suo atroce passaggio. Si sentono forti gli urli della miseria umana e della bruttezza delle “nuove opere”: scheletri di grattacieli, case abbandonate, cemento armato con le ossa di ferro la cui ruggine infettata ribalta i canoni della natura. Discariche, detriti resi ancora più violenti dai colori virati, acidi, da schermo televisivo di pessima qualità che ne rafforzano l’elemento straniante e assurdo, quasi permeato di incredulità. Come può accadere tutto ciò? Perché l’uomo non sa fermarsi nella sua distruzione continua e velocissima che, nei giorni nostri non coinvolge solo se stesso, ma per la prima volta l’intero pianeta e la sua forma più preziosa di vita, la natura, ovvero la nostra sola garanzia di vita? Passaggi in luoghi di guerra lontani, fuori da un centro o dentro al centro che non si trova, o dentro una dismessa sala operatoria, che ricorda proprio in questo rifugio le tracce di una sala attrezzata ad infermeria. Oppure posare lo sguardo sui fiori, può alimentare un pensiero diverso, di speranza, come trasportare la forma di una bomba su di una parete di un povero palazzo, in un forma di in un girasole fossilizzato. E allora sia che si scatti una foto, sia che si scalpelli un marmo o si plasmi la creta in questo luogo di passaggio della nostra storia i due artisti ci portano per mano verso pensieri profondi che forse, chissà, solo l’arte può trasmettere. A voi l’occasione di farvi portare lontano….