Il Ponte dei Suicidi

Ogni città ha i suoi ponti di riferimento, più o meno antichi, più o meno preziosi, più o meno importanti: Costituzione, Rialto, Libertà, Sospiri, Pugni, delle Tette, a Venezia.

Vecchio, santa Trinità, alle Grazie, Carraia, Vespucci, a Firenze.

Milano vanta il più brutto del capoluogo Lombardo, il “Ponte da demolire”, ma altri ve ne sono quali quelli del Portello, sulla Darsena, della Ghisolfa (“IL” cavalcavia di Milano, chiamato anche in molti altri modi), il Richard Ginori costruito in ferro nel 1906 con la stessa tecnologia della Torre Eiffel e del ponte ferroviario di Paderno D’Adda.

Ma veniamo alla nostra antica Felsina: Bologna ne possedeva una quarantina, ormai quasi tutti nascosti nel sottosuolo. Tra i pochi ancora visibili il “Ponte dei Preti” in via Malcontenti, quello di via Piella, quello di via Oberdan (l’antica via Cavaliera).
Uno solo però, costruito lungo una strada pontificia, l’ex via Panoramica (oggi Alessandro Codivilla), ha un nomignolo curioso: il “Ponte dei Suicidi”.
Fu utilizzato secoli addietro dai delusi, dagli innamorati non ricambiati, dai poveri, da chi era andato in rovina finanziariamente come luogo per mettere fine alle proprie pene.
La, allora, elevata altezza dal piano di campagna al letto del torrente (oltre 20 metri) faceva sì che quasi nessuno potesse sopravvivere alla caduta.

Il passaggio aereo viene citato dal Pascoli (che abitava in zona, non molto lontano dal tragico punto) in “Aposa Trista”.

Osservando la pavimentazione dell’odierna Codivilla si notano i possenti blocchi di granito posati a terra. Conficcati nel 1943 come ulteriore protezione (sic!) del sottostante rifugio antiaereo e provenienti dalla via Lame, sono grigi nel tratto viario e rosa nelle parti più esterne della strada, mostrano e identificano anche il manufatto che consente alla via di superare il torrente: un possente ponte ad arcata unica, tamponato a valle con un muro di notevoli proporzioni che riveste il dislivello fra il sottostante piazzale (già delle Officine Rizzoli) e la quota stradale. E proprio nel lato nord della via possiamo ancora vedere i resti dell’unico superstite parapetto modanato in muratura, coronato da lastre di arenaria e comprendente una sorta di panca con cui terminava la struttura.

La grande opera e le aree adiacenti sono oggetto, da tempo, di studi, ricerche e anche di visite guidate, di superficie, organizzate dagli Amici delle vie d’acqua-Bologna sotterranea.

Aposa trista! Il povero al tuo ponte sosta, e non altri. Siede sul sedile, né guarda: non a valle non a monte: non alle torri lunghe e sdutte, che oggi sfumano in grigio, non a quelle file d’alti cipressi tra i castagni roggi: ascolta, a capo chino, ad occhi bassi, te che laggiù brontoli cupa, e passi. A te vengono gli uomini infelici, Aposa trista! E nella solitaria notte a qualcuno tristi cose dici. T’ascolta a lungo. E poi, quando una foglia secca di platano, a un brivido d’aria, sembra un fruscìo di gonna su la soglia: ecco, quell’uomo non è più: dirupa… tu passi, e dopo un po’ brontoli cupa. Aposa trista! E l’Aposa risponde: – Vien l’usignolo, a marzo, tra le acace! Al gorgoglìo delle mie picciole onde sta prima attento, a lungo impara, e tace. Ma poi di canto m’empie le due sponde; e il canto suo già mio singulto fu. Canta al suo nido, al nido suo di fronde, di quelle fronde che cadono giù“.                                        Giovanni Pascoli, 1907, Canti di Castelvecchio.

Parte del testo tecnico è tratto da un lavoro di Francisco Giordano Ferraro.